Tatari-Sassari: domus de janas di Li Curuneddi

Domus de janas di Li Curuneddi, Sassari

A poco meno di cinque chilometri dalla città e prima della borgata di La Landrigga, troviamo il sito di Li Curuneddi, una necropoli a domus de janas fra le più importanti del territorio comunale di Sassari. L’area archeologica si distende lungo la parete destra di un modesto canalone calcareo, posto a m 170 s.l.m., dominato a Sud-SudOvest dal rilievo di Monte Oro (m 270 s.l.m.), da cui si può ammirare in lontananza la città.

Scavata in età Neolitica ai tempi della Cultura Ozieri, nel corso dei millenni la necropoli ha subíto riutilizzi fra i più disparati, una volta venuta meno la sua funzionefuneraria. Questo è quanto ci testimonia oltre ogni ragionevole dubbio la tomba II, trasformata in età altomedievale in chiesa rupestre e, secoli dopo, in palmento per la lavorazione delle uve. Da testimonianze rese da chi ancora abita il fondo, veniamo a sapere che nel novecento il vano centrale della tomba VI talvolta assolveva, nel periodo invernale – primaverile, alla funzione di “vasca per il bucato”. Al suo interno infatti, soprattutto in caso di abbondanti piogge, ieri come oggi confluiscono per percolazione le acque meteoriche.

Tomba II

La tomba II, la più meridionale del gruppo attualmente visitabile, si apre a pochi metri di distanza dal ponte sulla ex strada statale 291, realizzato proprio per superare la vallecola su cui si aprono gli ipogei.

In origine doveva essere la domus de janas più importante e monumentale della necropoli; proprio per questo motivo fu scelta, nell’alto medioevo, per essere ampliata ed adibita a chiesa rupestre, e successivamente ancora riutilizzata e pesantemente rimaneggiata per essere impiegata come palmento per lavorazioni vinicole.

Dell’originaria domus de janas neo-eneolitica restano poche ma significative tracce. L’ingresso doveva essere preceduto da un piccolo atrio o dromos (largo m 1,35 e con una profondità residua di m 0,40), ancora apprezzabile nella parte alta del vano che attualmente costituisce l’accesso dell’invaso ipogeico: ingresso che venne quindinotevolmente ribassato nelle epoche successive.

Preceduta da un portello di notevole spessore (distrutto per realizzare l’attuale porta), seguiva una modesta anticella, oggi completamente scomparsa ed inglobata nell’unico grande ambiente ipogeico, di cui restano ancora tracce nel soffitto dell’attuale palmento: si intuisce un vano di forma quadrangolare, largo m 2,00 e profondo circa m 1,80. Sicuramente, un ulteriore portello coassiale a quello di ingresso doveva introdurre nel vano principale, trasversale, il cui piano pavimentale doveva essere notevolmente ribassato (forse anche un metro e mezzo se non di più) rispetto a quello dell’anticella: l’ambiente doveva quindi essere reso agibile da diversi gradini, come ad esempio nella Tomba dei Vasi Tetrapodi di Santu Pedru ad Alghero (mentre i gradini attuali che consentono l’accesso al vano sono da riferire ai riusi successivi).

La cella, di cui non è possibile stabilire le dimensioni in pianta (che doveva comunque essere quadrangolare), doveva quindi avere un’altezza analoga a quella attuale (circa m 2,30) e presentava una coppia di robuste colonne a sezione circolare (diametro m 0,75) risparmiate nella roccia: residua solamente quella di sinistra, mentre quella di destra è stata completamente demolita ma rimane la sua impronta sul soffitto.

Non sappiamo se la tomba si sviluppasse sul lato destro, anche se è possibile che vi fosse almeno una celletta laterale oggi inglobata nell’unico invaso dell’ipogeo. Sono invece più evidenti le tracce dello sviluppo sul lato sinistro, dove si aprivano due celle in successione, in pratica a livello del piano pavimentale, per cui fra il soffitto dell’atrio esterno e quello dell’ultima celletta residua si registra un dislivello di poco inferiore ai due metri. La prima cella, che si apriva sul lato sinistro del vano principale, è stata quasi completamente distrutta per realizzare l’abside della chiesa rupestre: residua solamente il lato destro della cella e una parte del lato di fondo con un breve tratto del soffitto originario. All’estremità destra del lato fondale di questo ambiente si apriva un’ulteriore cella, l’unica oggi giuntaci nella sua forma originaria: di forma trapezoidale (m 2,40/2,80 x 1,70 x 1,00 h.) e provvista di bassi setti divisori che spartivano il pavimento i tre distinti settori, era preceduta da una sorta di slargo all’ingresso che fungeva da ambiente di rispetto e di manovra per l’utilizzo dei tre spazi destinati alle deposizioni, come notato anche nella domus n. 5 di Sos Laccheddos. Una canaletta incisa sulla soglia lascia intendere che comunque anche questo vano fu riutilizzato come pressoio in tempi più o meno recenti.

Tomba II - Li Curuneddi

La fase di riuso in epoca bizantina, come chiesa rupestre (di cui non è nota l’intitolazione),è stata ampiamentedescritta da R. Caprara. In questa circostanza, i vani interni vennero fusi in un unico ambiente quadrangolare e venne ricavata un’abside nel lato settentrionale a partire dalla celletta sinistra della domus de janas, mentre la cella successiva poté essere utilizzata sempre per deposizioni funerarie; probabilmente già in questa fase fu abbattuto il pilastro destro, anche per rendere visibile la nicchia scavata sul lato Nord-Est (dove in seguito venne alloggiato il torchio per l’uva) che Caprara attribuisce ugualmente alla trasformazione in chiesa rupestre. Potrebbe essere legata a questo momento anche la presenza della profonda incisione scavata nella parete esterna e che attornia completamente l’attuale porta di ingresso all’ipogeo; parrebbe destinata all’alloggiamento di una tettoia, che avrebbe potuto ben fungere da nartece analogamente a quanto osservato nella vicina tomba VII.

Alla luce di quanto osservato a proposito della planimetria dell’originaria domus de janas, è da rettificare l’ipotesi suggerita dal Caprara sull’abbassamento del piano pavimentale, che effettivamente avvenne ma soltanto nell’area dell’anticella, mentre nella cella e nelle cellette restanti il pavimento è da considerare ancora quello preistorico. Sempre il Caprara ha identificato due diversi interventi nell’abside, riconoscibili dalla forma irregolare dello stesso ed anche dalle tracce di due diversi livelli del soffitto (tre, considerando anche la parte residua del soffitto dell’originaria celletta preistorica).

Difficile da sostenere ci pare , comunque, l’ipotesi della presenza in origine di due absidi affiancate, in seguito fuse in una sola, poiché entrambe avrebbero sfruttato, ampliandola, la stessa cella della domus de janas neolitica: più probabilmente si trattava di un’unica abside ingrandita in un secondo momento. L’arco dell’abside era sormontato da una nicchietta forse destinata ad ospitare un’icona, mentre non vi è traccia alcuna dei tre graffiti che secondo Caprara erano presenti sull’archivolto dell’abside e che avrebbero raffigurato i volti di Cristo, di S. Giovanni il Precursore e della Vergine Maria.

Sempre alla chiesa rupestre potrebbe essere anche riferito lo scavo di una sorta di stretto camino (in parte scavato nella roccia e in parte realizzato con conci di calcare), sul soffitto nel lato meridionale dell’aula, e che potrebbe essere stato utilizzato per la corda destinata a suonare una campana sistemata al di sopra del piano di roccia (si veda l’analogo caso della tomba di Mela Ruja, in questo stesso libro). Analogamente, potrebbe risalire a questa fase di utilizzo lo scavo del sedile perimetrale che corre alla base dei lati occidentali e meridionali dell’aula.

La successiva trasformazione in palmento portò ad un ulteriore ampliamento dell’invaso, con lo scavo di due vasche circolari per la pigiatura dell’uva, di cui una aperta lateralmente ed un’altra provvista di vaschetta di raccolta: l’inserzione di raccordi metallici ci testimonia dell’utilizzo piuttosto recente di questo laboratorio enologico. Completano l’arredo del palmento l’alloggiamento per il torchio, ricavato nella preesistente nicchia di Nord-Ovest della chiesa rupestre, ed inoltre altre nicchie minori e diversi fori passanti per funi scavati sulle pareti o sul soffitto.

Paolo Melis

Bibliografia: LILLIU 1950, p. 446; CAPRARA 1983, p. 88; CAPRARA 1989, pp. 84-85, fig. 11; ROVINA 2000, p. 555.

 

Tomba VI

L’ingresso a padiglione, orientato a Sud-Ovest, dista m 4,20 da quello della tomba VII. Verosimilmente tale vicinanza giocò un ruolo non certo marginale sul complessivo tessuto planimetrico della tomba, determinandone uno sviluppo alquanto anomalo. Lo si deduce osservando la pianta. Appare evidente il perfetto asse seguito dagli scalpellini nell’escavazione del padiglione e dell’anticella. Ma già nella definizione della cella centrale d si avverte un’accentuata correzione dello scavo verso destra. E ancora sul lato destro, quasi a semi raggiera, si posizionano le celle e-f-g, non giungendo alla definizione ultima di quella che in tante altre domus de janas risulta essere la pianta così detta “sassarese”, vale a dire con le celle disposte attorno al vano centrale.

Discorso a parte merita la cella c, impostata sul lato sinistro dell’anticella. Soluzione progettuale non certo usuale nelle differenti tipologie d’impianto delle domus. Un errore di valutazione nello spingere lo scavo della cella fin troppo in profondità determinerà poi la tangenza della parete sinistra con il padiglione della tomba VII, nel suo lato destro. Per lungo tempo un sottile diaframma di roccia dividerà le due tombe, fino a quando una sbrecciatura operata in tempi recenti le metterà in comunicazione, così come oggi ci è dato di vedere. Se dovessimo accostare le piante delle due tombe, parrebbe ancor più evidente la preoccupazione degli scalpellini di ritrovarsi all’interno della cella destra della vicina tomba VII: da qui la decisione di non cimentarsi nello scavo di celle sul lato sinistro. Sebbene non sia da escludere che altri siano stati i motivi alla base di tale rinuncia. Brevi riflessioni, queste appena sottolineate, ma che ci aiutano nell’interpretare al meglio le scelte “edilizie” operate dalle maestranze che, in tempi diversi, portarono a compimento l’opera.

Si accede alla tomba superando un padiglione (m 1,36/1,09 alla sommità x 0,80 x 1,78 h.) dalle pareti curve e volta piana, molto simile nel prospetto a trapezio isoscele a quello della tomba VII, ampiamente rimaneggiato nel piano di calpestio ribassato di m 0,60. Della parete su cui s’apriva il portello d’accesso all’anticella rimane unicamente il tratto superiore (cm 50 circa di h.), impreziosito al centro da una protome taurina con testa trapezoidale distinta, alta cm 33 , con apici delle corna distanti tra loro cm 44.

Tomba VI pianta

L’anticella b, a pianta sub rettangolare (m 2,55 x 1,87 x 1,24 h.), presenta pareti curve e volta piana, con pavimento profondamente alterato per gran parte della sua estensione, e ribassato di cm 18. La parete su cui s’apriva il portello di accesso al vano d appare notevolmente ampliata proprio in corrispondenza del portello, del quale si riesce comunque a definire le dimensioni (cm 57 x 62). Nell’angolo superiore destro fa bella mostra di sé una protome bovina di cm 40 di h., con apici distanti cm 47. Dal battuto pavimentale, proprio alla base del portello, s’innalza un gradino a tronco di cono, largo superiormente cm 50, alto alla tangente con la parete cm 12 e al centro cm 20.

Sul lato sinistro dell’anticella residua il tratto superiore della parete (m 1,30 x0,41) ornata da una cornice piana (m 1,30 x 0,17), racchiudente un’ulteriore cornice a rilievo negativo (m 1,04 x 0,24 x 0,23) che ancora conserva una labile traccia del portello d’accesso al vano c, tale da ricavarne soltanto l’originaria larghezza (cm 57).

Entrati all’interno della cella c (m 2,21 x 2,18 x 1,02 h.), s’apprezzano l’alzato verticale e la volta piana, mentre la superficie pavimentale appare sufficientemente levigata e scompartita in tre distinti settori dall’incontro a “T” di due rilievi rocciosi a superficie piana, larghi cm 14/15 x 15 h. Il primo settore, prossimo al portello, misura m 2,21 x0,39; il secondo, a destra, m 1,65 x 0,97; il terzo m 1,65 x 1,10.Il centro ideale della tomba è rappresentato dal vano d, a pianta sub rettangolare(m 3,70 x 2,50), con pareti a profilo curvilineo e volta piana. Differente l’altezza del vano, il cui piano di calpestio presenta superficie concava; infatti, se all’ingresso si registra un’altezza di m 1,44, al centro essa raggiunge la quota massima di m 1,77, per attestarsi tra i m 1,60/1,65 a contatto con la parete di fondo. Analizzando poi l’architettura dell’intero vano, appare evidente come questo avrebbe dovuto richiamare la tipologia della casa a pianta rettangolare del tempo o il vano del cosiddetto “tempio rosso” dell’Altare di Monte d’Accoddi (vedi tomba VII), con colonne lignee portanti e, fatto abbastanza raro, arredi (panche) anch’essi lignei. Giungiamo a questa conclusione osservando il semipilastro risparmiato nella parete sinistra della cella, a sezione trapezoidale alla base (m 0,45 x 0,36 x 0,40 x 1,60 h.; distanza m 0,70 dalla parete su cui s’apre il vano e) e non lavorato a tutto tondo, come invece è stato per le due colonne della vicina angolo, da cm 17 a cm 25).

Tomba VI Li Curuneddi

Riproposizione di panche si trovano in pochissime altre domus: l’esempio a noi più vicino è quello della tomba II a della necropoli a domus de janas di Ponte Secco, trattata con apposita scheda in altra parte del libro, alla cui lettura si rimanda per i necessariraffronti. Ma aldilà della straordinaria presenza delle panche, l’importanza del vano d è ancor più accresciuta dal rilevante numero di rappresentazioni zoomorfe scolpite al suo interno, anche queste completamente ignorate dalla giovane rilevatrice. Nonostante il degrado della roccia e dopo migliaia di anni, giungono ancora a noi ben sette protomi taurine disposte sulle pareti e sul semipilastro sinistro, come ben evidenziato in pianta attraverso il segno grafico dell’asterisco. Più esattamente, da destra a sinistra: una protome (cm 40 h.; distanza apici cm 39) sulla parete appena varcato il portello d’accesso; una (cm 40 h., di cui cm 17 la sola testa; distanza apici cm 39) sul portello della cella e; in numero di due a sinistra dello stesso portello, di cui la prima risulta la più grande fra tutte le protomi della tomba (cm 45 h.; apici distanti cm 50); una sul semipilastro sinistro, in alto; le ultime due a breve distanza dal semipilastro, scolpite da destra a sinistra secondo un asse obliquo.

Da un punto di vista stilistico le nove protomi sono rese in quello che la Tanda definisce “stile geometrico curvilineo” (classificazione A,II,1), con motivi a rilievo convesso, con testa trapezoidale distinta e corna sviluppate in forma aperta e in senso verticale. La classificazione proposta dalla Tanda potrebbe accreditare l’ipotesi di una stessa mano nella esecuzione delle nove protomi o, in alternativa, di più interventi, comunque operati in tempi sufficientemente ravvicinati, così da comprenderle oggi in un unico stile.

A semi raggiera sul lato destro del vano principale si dispongono le celle e-f-g. La cella e a pianta trapezoidale (m 2 x 2,20 x 0,90) ha pareti curve e volta piana. Il portello d’accesso rettangolare (cm 60 x 56), rilevato dal suolo cm 30 e ampliato forse in tempi storici sul lato sinistro per un più agevole utilizzo dello spazio interno della cella, risulta inquadrato entro una cornice rettangolare, dalla partitura irregolare soprattutto nell’angolo inferiore destro. Alla cella f, a pianta sub rettangolare (m 1,80 x 2 x 0,90) e disposta in modo inusuale (due lati vanno a convergere nella luce del portello), si accede attraverso un portello rettangolare con rincasso (cm 58 x 57), posto a cm 72 dal piano di calpestio. Poco al di sotto del portello, nel suo lato destro, ha inizio la panca, il cui piano funge quasi da base per accedere al portello della cella g (cm 59 x 70), anche questo ampliato alla base e distante dal piano della panca cm 15.

Da segnalare un elemento fino a oggi sfuggito all’attenzione degli studiosi: a destra del portello campeggia una croce incisa, il cui motivo rimanda all’età altomedievale. La presenza della croce aggiunge un ulteriore contributo alla presenza di una comunità, forse monastica, che utilizzò la necropoli sia come luogo di culto sia come luogo di sepoltura. Delle tre celle, la cella g (m 2 x 2 x 0,90) appare la più regolare nel suo impianto quadrangolare, con pareti curve e soffitto piano. Sulla base della tipologia d’impianto e delle rappresentazioni simbolico – rituali al suo interno, è possibile collocarne il momento costruttivo ai tempi della Cultura Ozieri.

Mario Masia

Bibliografia: LILLIU 1950, p. 447; CONTU 1961, p. 275; CONTU 1962, pp. 629-35, figg. 4-6; MAETZKE 1962, p. 662; CONTU 1966c, vol. I, p. 98; CONTU 1970a; TANDA 1977, pp. 40-41, n. 6, tav. II; BASOLI 1989a, p. 16, figg. 3-4; DEMARTIS 2001, p. 97.

 

Tomba VII

Nella sua tesi la Del Rio segnalava l’ipogeo come tomba VII, numerazione che qui s’intende rispettare. Altri studiosi, al contrario, lo identificano come tomba I, concorrendo a generare possibili equivoci. Delle tombe della necropoli oggi visitabili è quella posta più a Nord. L’ingresso esposto a Sud- Ovest si apre sul piano di campagna di un modesto terrazzamento artificiale appena rilevato rispetto al fondovalle.

Osservandone l’impianto planimetrico colpisce la sua articolazione oltremodo semplice, impostato com’è sullo schema detto a “T”. In tale schema il padiglione e l’anticella seguono uno sviluppo longitudinale accentuatamente curvilineo, non in asse col vano centrale, mentre quest’ultimo, disposto sull’asse trasversale, è arricchito nei suoi lati brevi da una cella con accesso, per ciascun lato, da due distinti portelli. Al pari delle altre domus della necropoli ha sofferto le manomissioni che l’uomo nel tempo le ha inferto. Di quest’opera distruttiva colpisce soprattutto lo straordinario ampliamento operato sul padiglione e sull’anticella, con l’eliminazione pressoché totale delle pareti su cui s’aprivano ì portelli introducenti ai diversi ambienti. E ancora, il profondo scavo dell’originario piano di calpestio, tanto che dal piano di campagna si giunge al vano centrale discendendo appena tre brevi piattaforme gradonate create artificialmente con blocchi tufacei, messi in opera tra il padiglione e l’anticella, così da addolcirne la pendenza.

Analizziamo ora ciascun ambiente, riportando o in parte correggendo, dove necessario, le misure rilevate a suo tempo dalla Del Rio.

Il padiglione a pianta ellittica (m 2,35 x 1,65) ha pareti concave e soffitto piano, con altezza di m 2,30, mentre in origine questa non doveva superare m 1,65. Discendendo gli spazi gradonati si accede all’anticella a pianta sub rettangolare (m 2,30 x 1,40 x 1,10 h. media originaria; dopo lo scasso h. m 1,75) con pareti verticali e soffitto piano che tende a innalzarsi in direzione del vano centrale. Esaminando quanto resta delle pareti dell’anticella, si rilevano tracce di lesene (largh. cm 10): partiture frammentarie che ancora sembrano annunciare la ”ricchezza”del successivo ambiente, quello più interno, e certo il più importante dell’intera domus.

Tomba VII Li Curuneddi

Assecondando l’originario “progetto”, gli scalpellini neolitici trasposero nel vano centrale (m 4,28 e m 3,51 nei lati lunghi; i lati brevi misurano m 3 e m 3,25) gli elementi architettonici della casa dei vivi con vano centrale subrettangolare con tetto a doppia falda. Così modellarono nella roccia pareti in accennata concavità impreziosite da lesene angolari (largh. cm 16/17) che si elevano dal piano di calpestio fino alla volta. Nel tratto inferiore di ciascuna parete, fatta eccezione per quella fondale sulla quale torneremo più avanti, e per tutta la sua lunghezza, le lesene includono due cornici sovrapposte a sviluppo orizzontale, alta cm 30 quella superiore e cm 23 quella inferiore, entrambe molto degradate. Il piano pavimentale risulta cm 23/25 più in basso della cornice, a seguito di un riduzione del piano operata in tempi storici. Sulla volta piana (h. lato ingresso m 1,75; al centro m 1,98; alla parete di fondo m 1,78) gli scalpellini rappresentarono il tetto a doppia falda. Così marcarono la volta per tutta la sua lunghezza col rilievo di un trave di colmo a sezione semicircolare (cm 30 x 5 di h.), sostenuto da due colonne risparmiate a tutto tondo di differente diametro (colonna sx: cm 45; dx: cm 55), orlate nel tratto superiore da una fascia circolare piana alta cm 8 e rilevata cm 2. Perché la riproposizione su roccia corrispondesse il più possibile al vero, su ciascuna falda, a intervalli pressoché regolari (da cm 30 a 40), incisero nove linee di diversa lunghezza (falda lato ingresso: da m 1,58 a 1,82; seconda falda: da m 1,29 a 1,50) a imitazione dei travetti lignei, profonde poco più di cm 2.

Dalla linea interpretativa secondo la quale il modello di casa appena descritto rappresentasse esclusivamente la casa dei vivi, prende in parte le distanze Paolo Melis in alcune sue recenti pubblicazioni (MELIS 2007; MELIS 2010), introducendo nel dibattito una diversa chiave di lettura. Nell’ultimo suo lavoro così egli riassume al riguardo la propria teoria: «[…] l’intento delle genti che realizzarono queste trasposizioni ipogeiche di edifici con copertura a doppia falda non fu semplicemente quello di riprodurre l’ambiente domestico del defunto, per consentirgli una più o meno simbolica continuità di vita oltre la morte, ma fu probabilmente quello di replicare il modello del “tempio rosso” di Monte d’Accoddi (e degli altri “templi rossi” che ancora restano da scoprire); ovvero la trasposizione, nell’ambito del culto funerario, di quell’ambiente sacro legato ai riti agrari di fertilità e rinascita, che certamente avevano nel santuario della Nurra il loro fulcro e centro di irradiazione, almeno nell’ambito della Sardegna Nord-Occidentale, che è poi anche l’area di maggior diffusione delle domus de janas con riproduzione del soffitto a doppio spiovente […]» (Melis 2010, pag. 334). Non v’è dubbio che tale lettura, sbreccando convincimenti ormai sedimentati nel tempo, porterà nuova linfa nel dibattito scientifico sull’architettura ipogeica del neolitico sardo, secondo la migliore tradizione degli studi archeologici. 

Riprendendo il discorso sulla nostra domus, l’abbassamento del piano di calpestio dell’intero vano ha portato modifiche alla parte inferiore delle due colonne, con l’aggiunta di basamenti quadrangolari di differenti misure (cm 55 x 55 x 20/23 di h. per la colonna sx; cm 68 x 51 x 20/23 di h. per quella dx). In questa trasposizione di elementi architettonici richiamanti la “casa dei vivi” o forse il “tempio rosso” di Monte d’Accoddi come proposto dal Melis e di simbologie legate al culto dei morti, la parete di fondo del vano racchiude in sé, e più di un qualsiasi altro ambiente della tomba, il respiro artistico – religioso di quella lontana età. Perché qui gli scalpellini rappresentarono con raffinata competenza stilistica simbologie proprie della sfera magico – religiosa del loro tempo. Come il motivo della “falsa porta” (cm 60 x 60) delimitato nei lati superiore e inferiore da cornici (cm 60 x 13) e, ai lati, da stipiti (cm 20) che si elevano per m 1,32 fino a sfiorare la volta, il tutto reso in leggero rilievo piano. I motivi a cornici, che abbiamo già visto nelle altre pareti della camera, furono racchiusi entro le lesene angolari e gli stipiti della “falsa porta”. Ancora in accennato rilievo, al di sopra della cornice superiore della falsa porta, quasi a vigilare e proteggere l’eterno sonno dei trapassati, raffigurarono il motivo taurino ortogonale in duplice iterazione (cm 56 x 38 e cm 32 x 24) reso in “stile rettilineo di transizione”, B,II,1, secondo la classificazione proposta dalla Tanda in un suo pregevole studio. Dell’esistenza di tali rappresentazioni, ignorate dalla Del Rio, si accorse il Contu in un sopralluogo alla necropoli alla fine degli anni sessanta, dandone pronta comunicazione alla comunità scientifica nella “Rivista di Scienze Preistoriche”. Oggi i motivi della “falsa porta” e delle “protomi taurine” si leggono con estrema difficoltà così come le altre partiture, a causa dell’accentuato degrado della roccia calcarea. In breve saranno cancellati, senza un provvidenziale e urgente intervento di restauro.

Tomba VII Li Curuneddi

Ai lati brevi della camera si apre una cella rilevata rispetto all’attuale piano di calpestio. Quella a destra (m 3,98 x 1,80 x 0,97 h.) presenta a cm 85 dal suolo due portelli con rincasso (cm 68 x 70 e di cm 62 x 68). Anche alla cella di sinistra (m 3,70 x 1,90 x 0,96/ 0,86 h.) si accedeva in origine da due distinti portelli (cm 62 x 65 e cm 60 x 65), oggi ridotti a un’unica apertura a seguito di un danneggiamento operato da ignoti alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Ma al di là degli interventi distruttivi operati dall’uomo, lo studio della domus o una sua semplice visita porta l’osservatore a riflessioni che meriterebbero una qualche risposta. E tutto nasce dall’intervento/i davvero notevole operato non solo sull’originario piano di calpestio del vano centrale, ma anche su altri vani. Certo colpisce l’immaginario quello sull’anticella, ribassata di ben 65 cm. Parrebbe che si mirasse a realizzare un accesso il più agevole possibile al vano colonnato. Potrebbe averlo pensato e attuato in età storica un frequentatore della campagna per un più razionale utilizzo del fondo? Potrebbe. Questo è avvenuto nella vicina tomba II. Ciò che desta perplessità e suscita più di un dubbio è l’intervento attuato sull’intero piano di calpestio del vano centrale ribassato, come già detto, di ben cm 23, con una cura sorprendente nel rispetto di tale misura. In quest’opera, lo scalpellino d’età storica ha avuto cura di definire a sviluppo quadrangolare la base delle colonne. Si sarebbe cimentato in quest’opera il contadino? Dubito fortemente che questo sia avvenuto. C’è poi un altro interrogavo cui rispondere: all’esterno, appena sopra il vestibolo, sulla parete si leggono due linee dall’incavo alto e profondo che s’incontrano al vertice, disegnando una sorta di timpano. Da un punto di vista funzionale, la scanalatura sembra adatta a ospitare l’alloggiamento di pali portanti di un piccolo portico a copertura lignea. Si potrebbe pensare all’esonartece, portico esterno delle chiese paleocristiane o bizantine, luogo deputato ad accogliere i catecumeni. A questo proposito, ancora ci viene in soccorso la tomba II della nostra necropoli, utilizzata in età altomedievale quale luogo deputato alla celebrazione di riti e liturgie cristiane. Ci si domanda: anche la tomba VII è stata riutilizzata come chiesa rupestre? Può essere stato. E se così fosse, troverebbero giustificazione gli interventi d’ampliamento operati a partire dal vestibolo e fino a quello del vano centrale, per una migliore fruizione di tutto l’ambiente. È solo un’ipotesi, per quanto suggestiva, e come tale la lascio agli studiosi medievalisti.

Mario Masia

Bibliografia LILLIU 1950, p. 447; CONTU 1966c, vol. I, p. 96; vol. II, p. 84, fig. 5,1; CONTU 1970a; TANDA 1977, p. 50, n. 50; TANDA 1985, p. 24, n. 32, fig. 4; DEMARTIS 1986, p. 11 note 13 e 14, p. 14, p. 16 n. 5; MOSSA 1988, pp. 15, 151-52, tavv. 1-2; BASOLI 1989a, p. 16, figg. 2-4; DEMARTIS 2001, p. 97.

Fonte: “Sassari nella preistoria-Dal neolitico all’età nuragica” ; AA.VV.

https://www.academia.edu/47250428/Sassari_nella_Preistoria

 

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